La questione è al centro   dell’attenzione principalmente perché gli Stati Uniti hanno reso nota la   loro intenzione di andarsene dall’Afghanistan. Le nazioni che   potrebbero considerarlo come uno sviluppo positivo sono il Pakistan e la   Cina, insieme all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, che erano i   sostenitori principali dei talebani prima del 2001. Tuttavia, questi   ultimi Paesi potrebbero non essere più così sicuri. Naturalmente, quelli   che hanno inviato contingenti per l’ISAF ne saranno sollevati. Non è   ancora chiaro se gli Stati Uniti abbiano in programma un ritiro completo   o se lasceranno alcune forze residue, come è accaduto in Iraq; nessuno   nel Paese, in ogni caso, si sognerebbe di etichettare la Missione   Afghanistan come un successo. Gli statunitensi si stanno ritirando di   loro spontanea volontà a causa dell’impopolarità del lungo conflitto e   dell’elevato tasso di incidenti, nonché per le loro stesse difficoltà   economiche. Non sono stati propriamente sconfitti; hanno piuttosto   deciso di porre fine alle loro perdite. Vi è un gran numero di ipotesi,   in Afghanistan come nelle nazioni maggiormente coinvolte, su quale sarà   lo scenario post-ritiro, dopo la partenza delle forze internazionali   schierate principalmente per stabilizzare l’Afghanistan ed impedire che   possa cadere ancora una volta nelle mani dei talebani. Prima di   addentrarsi in una riflessione più dettagliata riguardo al futuro   dell’Afghanistan è necessario concentrarsi sullo scenario interno al   paese e sulle probabili ricadute sulle nazioni più interessate. È   necessario anche valutare come questi Paesi affronteranno tali ricadute.
                                Gli Stati Uniti sono stati l’attore primario in Afghanistan per oltre   un decennio a partire dall’11 settembre 2001; è opportuno quindi   cominciare da qui l’analisi. Alcuni politici a Washington non saranno   contenti dell’evolversi degli eventi che li costringe a lasciare   l’Afghanistan a se stesso, dal momento che per loro la guerra finisce   senza che se ne fossero raggiunti gli obiettivi. Da adesso in poi,   mentre potranno continuare ad assistere il governo afghano, non   prevedono sicuramente di impegnarvi nuovamente ingenti forze. Permettere   che i talebani controllassero una parte del Paese era evidentemente   l’ultima cosa che desideravano. Per la stessa ragione, consentire al   Pakistan di assumere un ruolo di primo piano, anche se su delega, non   può essere uno sviluppo ben accolto. Ad un primo sguardo, gli Stati   Uniti si stanno ritirando perché l’opinione pubblica è contraria al   prolungarsi della permanenza. Tuttavia, è necessaria una seria   riflessione su come elaborare un piano di contenimento nel caso si   verificasse il peggio. Dovrebbero essere state pianificate strategie   sufficienti per far sì che non possa verificarsi un collasso in stile   Vietnam del loro alleato; certamente, la situazione sul territorio   afghano dopo il 2014 sarà molto diversa da quella del Vietnam del Sud   quando avvenne il collasso. Analogamente, a Washington avranno studiato   come assicurarsi che le forze rimanenti in Afghanistan, se ne   rimarranno, non portino ad un ripetersi di Dien Bien Phu. E nemmeno, se è   per questo, le milizie pakistane e i Talebani sarebbero disposti a   rischiare una rappresaglia statunitense peggiore di quella dopo l’11   Settembre.
                                Il secondo, terrificante scenario da tenere in considerazione è il   crescente accumulo di armi nucleari del Pakistan e le sue condizioni   interne, che non hanno mai cessato di essere al centro delle più   importanti preoccupazioni degli Stati Uniti e del resto del mondo. Il 22   aprile 2009 il Segretario di Stato Hillary Clinton ha messo in guardia,   presentando il suo rapporto davanti al Comitato per gli Affari Esteri,   dal pericolo che il Pakistan possa cadere in mano ai terroristi: «Penso   che non si possa mai sottolineare abbastanza la serietà della minaccia   rappresentata nello Stato del Pakistan dalla continua avanzata,   attualmente a poche ore da Islamabad, di una confederazione di   terroristi ed altre forze che si pongono come obiettivo la conquista del   Pakistan, Paese in possesso di armi nucleari». E di nuovo, il   Segretario di Stato Clinton ha dichiarato, in un’intervista del 26   aprile sulla Fox Television, che il Pakistan ha rassicurato gli   Stati Uniti circa la sicurezza delle proprie armi nucleari; tuttavia   l’attuale situazione precaria del Paese solleva perplessità sulle   rassicurazioni di Islamabad. «Una delle nostre maggiori preoccupazioni,   che abbiamo sollevato con l’Esercito e il governo pakistano», ha detto   la Clinton, «è che qualora il peggio, l’impensabile dovesse accadere, e   quest’avanzata dei talebani promossa e sostenuta da Al Qaeda e   da altri estremisti fosse in grado di rovesciare il governo che avesse   fallito nuovamente nel respingerli, essi avrebbero accesso all’arsenale   nucleare del Pakistan». Bruce Riedel, un ex ufficiale della CIA   attualmente operante alla Brookings Institution di Washington, e consigliere del presidente Obama sulle politiche afghane, in un documento presentato alla Brookings il 30 maggio ha sottolineato i pericoli di una situazione di questo   tipo. Egli ha dichiarato che «i combattimenti hanno messo in luce la   traballante sicurezza dell’arsenale nucleare pakistano – l’arsenale in   più rapida crescita al mondo. Oggi è sotto il controllo dei leader militari pakistani, ben protetto, nascosto, e sparpagliato. Ma se il   Paese cadesse nelle mani sbagliate – quelle dei militanti islamici   jihadisti e di Al Qaeda – così accadrebbe anche per l’arsenale.   Gli Stati Uniti ed il resto del mondo si troverebbero ad affrontare la   peggiore minaccia alla sicurezza dalla fine della Guerra Fredda.   Contenere una minaccia nucleare del genere sarebbe complicato, se non   impossibile».
                                Gli Stati Uniti e i loro alleati si sono concentrati sulla crescente   minaccia nucleare in Iràn e Corea del Nord. Dopo l’episodio di A.Q. Khan   il Pakistan sembrava essere passato in secondo piano. In realtà, la   minaccia nucleare pakistana è molto più insidiosa e diffusa di quanto   sia attualmente valutata ai piani alti. Le risorse dell’Iràn, in   confronto a quelle pakistane, su una scala da 0 a 9 non arrivano nemmeno   ad 1; il Pakistan si aggirerebbe attorno a 7 o 8 per la sua capacità   nucleare. Analogamente la Corea del Nord, sebbene si sia spinta molto   più avanti dell’Iràn, non è allo stesso livello del Pakistan per quanto   riguarda il numero di ordigni di cui si stima sia in possesso. Fatto   ancor più rilevante è che la Corea del Nord non ospita gruppi radicali   che siano in grado di portare avanti atti terroristici di diversa   intensità praticamente in tutto il mondo; l’Iràn oggi limita la sua   portata a Libano, Siria e Gaza. I gruppi radicali pakistani, insieme ai   simpatizzanti nell’Esercito Pakistano e nell’ISI, hanno le potenzialità   per prendere il controllo nel Paese in un futuro non troppo lontano,   forse più vicino di quanto si pensi. Ciò significa che entrerebbero in   possesso dell’arsenale nucleare pakistano e del sistema di   approvvigionamento implementato dalla Corea del Nord e dalla Cina. Un   recente rapporto attribuito al professor Shaun Gregory della Bradford University (Regno Unito) afferma che i siti nucleari pakistani sono stati attaccati per tre volte dai jihadisti (Times of India, 11 agosto 2009). Un titolo a pagina 15 dell’Indian Express dell’11 gennaio 2009, citando un articolo apparso sul New York Times,   recita: «il Presidente Obama teme che il nucleare pakistano possa   cadere nelle mani sbagliate». Bisogna precisare che si tratta di   incidenti dei quali gli analisti occidentali sono consapevoli.   Potrebbero essercene altri noti solamente alle autorità pakistane.   Perciò, per gli Stati Uniti e per il mondo, neutralizzare la capacità   nucleare del Pakistan è molto più importante che occuparsi delle assai   minori minacce rappresentate dalla Corea del Nord e dall’Iràn.   Naturalmente la Cina avrebbe da obiettare su questo punto; ma ciò è   prevedibile. In sintesi, l’Opzione Zero discussa in alcuni ambienti di   Washington potrebbe non essere una strada praticabile.
                                Tra gli Stati direttamenti colpiti dagli eventi in Afghanistan, il   Pakistan rimane il più importante. È il Paese maggiormente influenzato   dall’Afghanistan, nonché il principale responsabile del peggioramento   della situazione al suo interno. Senza addentrarci nella storia del   passato, è più utile esaminare le opzioni attualmente aperte per   un’alleanza tra Esercito Pakistano–ISI, la Shura di Quetta   guidata dal Mullah Omar e la Rete Haqqani. Ci sono poi altri gruppi tra i   talebani in Afghanistan e in Pakistan che emergono di volta in volta.   Ad un primo sguardo, Washington è stata estremamente generosa col   Pakistan dopo aver preso la decisione di ritirarsi lasciandosi dietro   delle forze che devono ancora essere quantificate. Stando alle   esperienze passate, sarà sostenuta fino in fondo e in ogni maniera   possibile una massiccia migrazione di talebani in Afghanistan per   favorire la loro presenza in un’area molto più vasta di quella   attualmente prevista dagli Stati Uniti. Se questa fase prenderà il via   gradualmente o ad un ritmo molto più veloce dipende di nuovo dalla   potenziale opposizione dell’Esercito Nazionale Afghano (ANA), dal   sostegno fornito all’ANA dalle forze USA residue e da altri fattori che   entreranno sicuramente in gioco. Sono queste ultime forze e interessi   che potrebbero diventare i fattori decisivi nell’evolversi della   situazione in Afghanistan durante gli anni a venire. Basta considerare   che lo spessore strategico che l’esercito pakistano ed i suoi agenti si   stanno ritagliando potrebbe risolversi in un incubo strategico molto   prima di quanto essi si aspettino. 
                                I pakistani si sono mobilitati affinché gli statunitensi lasciassero   l’Afghanistan, così da poter prendere il loro posto. Ironia della sorte,   non molti anni e si pentiranno dell’uscita di scena degli Stati Uniti.   Infatti, erano loro che garantivano un minimo di stabilità al Pakistan.   Attualmente il terrorismo è diventato il fenomeno maggiormente   distruttivo in Pakistan; il numero delle vittime di attacchi   terroristici cresce rapidamente, salendo dalle 164 vittime nel 2003 alle   40.000 nel 2011. Secondo dati ufficiali, le perdite subite dalla   nazione dal 2000 al 2011 ammontano a oltre 70 miliardi di dollari. Un   elemento cruciale dell’attività terroristica fuori controllo che   affligge la nazione è stato il diretto coinvolgimento del Pakistan nelle   azioni militari in Afghanistan, e la creazione di unità di mujhaideen che, dopo il cessare degli scontri armati, sono salite alla ribalta   come forza politica e militare prima in Afghanistan e poi in Pakistan.   Da allora sono diventate ogni giorno più potenti. L’opinione di George   Friedman, un osservatore nordamericano, è che il Pakistan stia perdendo   la sua «traiettoria verso il futuro». Quest’opinione è sostenuta dal   fatto che la vita sociale e politica in Pakistan è sempre più caotica, a   causa del coinvolgimento dell’esercito nelle dinamiche interne al   Paese, di un’economia di governo scarsamente regolata e dell’incapacità   dei partiti di organizzare un’adeguata vita politica, situazione che va   avanti da più di cinque anni. Questo “vuoto istituzionale” viene   inevitabilmente riempito da altre organizzazioni, e nel caso del   Pakistan da organizzazioni terroristiche.
                                Il secondo Paese che condivide una lunga linea di confine con l’Afghanistan è l’Iràn. Recentemente,
                                  in alcuni ambienti è stata avanzata l’ipotesi che gli iraniani potessero   supportare i talebani per rendere le cose più complicate agli USA.   Tuttavia, la situazione cambierà radicalmente nel momento in cui i   nordamericani si ritireranno e lasceranno l’Afghanistan a se stesso,   sperando che l’ANA sia in grado di sostenere la situazione. Qualunque   cosa succederà, gli iraniani non tollererebbero certamente una presa del   potere, o anche una maggiore pressione da parte dei talebani che possa   andare oltre la loro attuale sfera di influenza nel sud e nell’est.   Inoltre, la loro politica potrebbe convergere con quella della Russia,   delle Repubbliche centroasiatiche e dell’India. Gli iraniani si   mobiliterebbero con decisione per sostenere le milizie di una rinnovata   Alleanza del Nord, con la possibilità di diventare in questa maniera   importanti detentori di interessi in Afghanistan, al pari del   Pakistan. A tal proposito è opportuno ricordare che la strada   Zaranj-Delaram costruita dall’India conferisce all’Iràn maggior spazio   d’azione ed ha aperto diversi punti d’accesso dal confine iraniano   all’Afghanistan che prima non erano disponibili, riducendo così la   dipendenza di quest’ultimo dal Pakistan.
                                Ai fini di quest’analisi le Repubbliche centroasiatiche possono   essere raggruppate con la Russia, in quanto un ritorno al potere dei   talebani rappresenterebbe una minaccia comune a tutte queste nazioni. Si   potrebbe ricordare come questa minaccia sia collegata – come è stata in   passato – all’asilo offerto a gruppi come l’IMU (Movimento Islamico   dell’Uzbekistan), sotto la guida di Juma Namangani, che aveva portato   avanti profonde incursioni nella valle di Fergana e minacciava di   destabilizzare Tagikistan, Kirghizistan e Uzbekistan. Ad un certo punto   anche il Kazakistan sarebbe stato contagiato. La seconda principale   minaccia è rappresentata dal flusso di narcotraffico proveniente   dall’Afghanistan; sebbene tale flusso sia rimasto praticamente   inalterato indipendentemente da chi è alla guida del Paese. Alla fine   degli anni ’90, quando i talebani avevano preso il controllo di più del   90% dell’Afghanistan, con la sola resistenza del Panjshir sotto Ahmed   Shah Masud, la Russia si trovava in una posizione molto indebolita verso   la fine dell’era El’cin. Oltre alla demoralizzazione e alla mancanza di   attrezzature delle loro forze armate, i russi disponevano solamente di   una debole e scoraggiata divisione motorizzata lungo il confine   Afghanistan-Tagikistan. Se non ci fosse stato l’11 settembre è quasi   certo che, dopo l’assassinio di Masud, i Talebani si sarebbero spinti   più in profondità nell’Asia Centrale, essendo questo il piano d’azione   del Pakistan e dell’Arabia Saudita, i maggiori sostenitori dei talebani.   Questa volta la situazione è totalmente diversa. La Russia è   perfettamente preparata a difendere i suoi interessi in Asia centrale – e   in Afghanistan – una volta che gli USA si saranno ritirati.
                                L’India è stata lasciata per ultima in quanto è l’unico Paese preso   in considerazione che non ha alcuna contiguità territoriale con   l’Afghanistan. Dalle dichiarazioni e indicazioni sulla stampa sembra   essere la nazione più apprensiva riguardo allo scenario post-ritiro   degli USA nel 2014. L’India deve ancora realizzare che non le è stato   concesso di ricoprire un ruolo chiave in Afghanistan, nonostante gli   aiuti forniti e gli sforzi tesi allo sviluppo, perché fino alla fine gli   Stati Uniti non l’hanno permesso. Per la maggior parte del periodo   compreso tra il 2001 e il 2013/14 essi si sono sbilanciati pesantemente a   favore del Pakistan. Non è più così. Le circostanze sul terreno e   un’inadeguata direzione strategica hanno obbligato gli USA a raggiungere   un accordo con i talebani e i loro sostenitori pakistani; ma poi hanno   cominciato a rendersi conto che una maggiore presenza indiana in   Afghanistan avrebbe potuto rivelarsi un fattore di stabilizzazione per   il Paese. Con questa intenzione sarebbe stato dato il via libera al   governo afghano per giungere ad un accordo strategico di difesa con   l’India. Lo spiraglio  di opportunità che le si è aperto permette   all’India di diventare il Paese col ruolo più importante   nell’Afghanistan post-2014, nel caso in cui il governo e la comunità   strategica siano consci di ciò, vale a dire: scendere in campo per   raggiungere i propri obiettivi. Quando l’India inizierà a considerare da   questo punto di vista i suoi obblighi nei confronti di se stessa e   dell’Afghanistan la situazione potrebbe prendere una spettacolare svolta   per il meglio. Le diverse opzioni disponibili per l’India – che   sarebbero generalmente bene accolte in Afghanistan – non necessitano di   essere affrontate a questo punto. Basti dire che il popolo afghano   considera l’India più positivamente, come una presenza benigna, se   paragonata a tutti gli altri attori regionali contigui all’Afghanistan.   Analogamente, praticamente tutti i paesi della regione, ad eccezione di   quelli che sostengono l’alleanza Pakistan-talebani, accoglierebbero con   favore l’India in qualità di partner strategico per la stabilizzazione   dell’Afghanistan. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali, tra cui   la maggior parte dei paesi dell’est e sud-est asiatico che hanno inviato   contingenti in Afghanistan con l’ISAF, sarebbero pienamente d’accordo.   L’unica falla in questo quadro promettente potrebbe non essere il   Pakistan o la Cina, che ha assunto una posizione defilata perché il suo   ”alleato nel bene e nel male” sarà di nuovo al comando dopo la partenza   degli USA; ma potrebbe essere l’India stessa, con la sua insicurezza e   l’incapacità di prendere posizione.
                                Avendo fatto un sommario delle potenze che hanno un interesse o sono   in grado di influire sugli avvenimenti in Afghanistan, sia direttamente   sia per procura (come nel caso della Cina), emerge che, in ultima   analisi, è l’Afghanistan stesso che deciderà il suo futuro. Vale la pena   di ribadire che l’Afghanistan di oggi è una faccenda completamente   diversa da quando era governato dai talebani, oltre un decennio fa. Le   condizioni sul campo, le possibilità che si sono aperte per il popolo   afghano, il livello di educazione e le attività commerciali hanno subìto   una profonda trasformazione. Non c’è alcuna possibilità che gli afghani   o l’Afghanistan possano essere una facile riconquista per i talebani o i   loro sostenitori. Dubbi sull’efficacia della risposta afghana   all’ingresso dal Pakistan, ove esistano, devono essere immediatamente   dissipati. Tali perplessità sussistono per diverse ragioni. La più   importante di queste è: se le potenti forze statunitensi, supportate con   tutta la tecnologia a loro disposizione, non sono state in grado di   avere la meglio sui talebani, come può l’ANA, la cui efficacia rimane   dubbia anche quando si avvale del supporto degli USA, riportare un   successo contro di essi? La seconda riguarda il grado di supporto che   sarebbe disponibile per il Governo afghano e l’ANA post-2014 a titolo di   finanziamento, come anche di supporto tecnologico di alto livello, tra   cui il supporto aereo, di elicotteri e dell’artiglieria pesante che   verrebbero messi a disposizione dell’ANA. 
                                Non vi è alcun dubbio che queste preoccupazioni siano ragionevoli. È   molto improbabile che il governo afghano e l’ANA verranno bruscamente   lasciati soli una volta che la maggior parte delle forze degli Stati   Uniti si sarà ritirata. E’ probabile che si verificherà un certo   disimpegno graduale nel corso degli anni. Quando ciò accadrà, altri   donatori e sostenitori interessati ad una partecipazione in Afghanistan   interverranno, a condizione che il governo afghano e l’ANA dimostrino   capacità di resistenza e di aver impedito all’alleanza   pakistano-talebana di estendere la sua influenza su aree più vaste. Per   di più, ed è di vitale importanza capire questo aspetto, gli afghani   sanno che devono badare a se stessi una volta che gli USA si   ritireranno. Nessun intervento speciale in stile russo o del calibro di   quello degli Stati Uniti si verificherà di nuovo per salvare   l’Afghanistan da un attacco del Pakistan e dei suoi delegati.   Contemporaneamente, uno dei motivi principali per sostenere i talebani,   ove esistesse, verrebbe meno automaticamente. Una volta ritiratisi gli   stranieri, i soli estranei che resterebbero sarebbero i talebani   foraggiati dall’estero e i loro sostenitori. Così, per la prima volta in   tutto il Paese si avrebbe chiarezza di intenti, la percezione che gli   afghani sono in balia di se stessi, e che gli unici elementi estranei   che minacciano loro e il loro futuro risiedono in Pakistan. Gli Stati   Uniti e la NATO hanno unito i pashtun di Afghanistan e Pakistan con il   sostegno di Islamabad creando così una nuova minaccia per il Pakistan.   Molti pashtun residenti nelle FATA e nella NWFP hanno cominciato a   identificare il Pakistan più come un nemico che un amico, perché   Islamabad ha permesso agli USA e ad altri stranieri di attaccare i   pashtun. Inoltre, le truppe pakistane si sono unite anch’esse alle   uccisioni di pashtun con il pretesto di eliminare gli estremisti   talebani pakistani. Come risultato, c’è la possibilità che, quando gli   USA se ne andranno, il movimento del Grande Pashtunistan possa tornare   alla ribalta. Un gran numero di pashtun stanziati da entrambi i lati   della linea Durand, un gruppo molto più grande di quello che supporta i   talebani, potrebbe gettarsi nella mischia. Kabul si assicurerà che ciò   si verifichi.
                                Una volta dissipati i dubbi sulla capacità di Afghanistan ed ANA di   aver la meglio sui talebani supportati dal Pakistan, è possibile   discutere sulla capacità di resistenza e sull’efficacia dell’ANA. Senza   dubbio in essa vi sono divisioni etniche e di altro genere. Tuttavia,   queste potrebbero in larga misura passare in secondo piano una volta che   vi sia una comunanza d’intenti e chiarezza circa il nemico e la sua   provenienza, come anche sulla sofferenza che colpirebbe ancora una volta   il popolo afghano nel caso in cui ai talebani fosse consentito di   prendere il sopravvento una seconda volta. Quindi, qualunque dubbio   riguardo all’ANA venga espresso, è comunque prevedibile che l’ANA darà   una buona prova di sé. Per di più il governo afghano e l’ANA potrebbero   pianificare l’eliminazione della linea Durand una volta per tutte, così   da porre fine alla contesa in atto a causa di una divisione artificiale,   e far sì che il vero nemico sia sfrattato da questi territori una volta   per tutte. I potenti capi del nord preparerebbero le loro milizie per   la battaglia che avrebbe luogo nel caso in cui i talebani dovessero   avanzare. Inizialmente, le loro forze potrebbero supportare la cacciata   dei talebani dall’Afghanistan da parte dell’ANA. Una volta che sia l’ANA   che i capi del nord saranno nuovamente liberi di agire potrebbero   ingaggiare una lotta senza esclusione di colpi, che potrebbe non   limitarsi esclusivamente a combattimenti sul suolo afghano. I capi del   nord potrebbero addestrare truppe irregolari per ripagare l’esercito del   Pakistan con la sua stessa moneta, portando la lotta nelle zone interne   del Pakistan con lo stesso terrore e le tattiche di inserimento IED che   i talebani hanno utilizzato in Afghanistan. Molti comandanti ritengono   che, una volta andati via gli USA, nel corpo a corpo sul suolo afghano i   talebani o i pakistani non potrebbero mai essere alla loro altezza. La   loro conoscenza del territorio, e di come sfruttarlo con raid di piccole   unità in grado di mescolarsi coi locali, sarebbe vincente sui talebani   provenienti da oltre confine. Se l’Esercito pakistano non dovesse essere   tenuto a freno da un governo civile, una volta che gli USA se ne   saranno andati potrebbe iniziare lo smantellamento del Pakistan.
                                Parlare di una fine dei giochi in Afghanistan non solo è prematuro,   ma si fonda su un ragionamento che rimanda al passato. Il gioco vero e   proprio per il futuro dell’Afghanistan avrà inizio una volta che il   grosso delle forze statunitensi si ritireranno.
                                Traduzione dall’inglese di Giulia Giannasi
                                
                                
                                
                                
                                  
                                  Vinod Saighal, maggiore generale (in   congedo) dell’Esercito Indiano, direttore esecutivo della Eco Monitors   Society e membro del Comitato Scientifico di "Geopolitica".